La diagnosi e l’importanza dell’intervento precoce
Quando ho ricevuto la diagnosi di autismo di mio figlio – aveva meno di due anni – ricordo che i medici parlarono dell’importanza dell’intervento precoce. Prima si interveniva, maggiori erano i margini di miglioramento. Così dicevano. Mi parlarono di plasticità cerebrale e di come il nostro cervello modifica i collegamenti neurali in modo decisivo proprio nei primi anni di vita.
È così che appena rientrata a casa dall’ospedale, iniziai una ricerca spasmodica – quasi ossessiva – di informazioni.
Volevo fare tutto quanto era possibile per garantirgli la possibilità di “adattarsi al mondo” al meglio possibile. Volevo che avesse accesso a tutti gli strumenti necessari a tirare fuori il meglio di sé.
Pur avendo un altro figlio e in un certo senso avendo già “imparato” a fare la mamma, mi sentivo del tutto impreparata a lui. Mi era sempre sembrato che mi sfuggisse qualcosa del mio bambino, come se in fondo non lo conoscessi davvero.
Dopo la diagnosi le mie domande avevano trovato una risposta, anche se non era quella che avrei desiderato per lui e per la mia famiglia.
La diagnosi di autismo: mio figlio funziona in modo diverso
La diagnosi, se pur dolorosa, mi aveva permesso di “rileggere” il nostro breve passato insieme. Ecco il perché di quei pianti ogni volta che lo vestivo, o di quando lo “costringevo” a stare seduto sul seggiolino dell’auto, magari tutto “imbacuccato”. Ecco perché facevo fatica a tenerlo sul passeggino e perché faceva cose “strane”.
Il perché è semplice. Mio figlio funziona in modo diverso. Giorni fa ho letto una frase pronunciata da una ragazza autistica che diceva: non ho un “bug” nel sistema operativo, semplicemente funziono con un altro sistema operativo. L’autismo non è un errore, una malattia. È un modo di essere. Certo che è un disturbo, perché la maggioranza di noi è neurotipica e gli autistici, come tutte le minoranze, si trovano in difficoltà a confrontarsi con un mondo che funziona diversamente da loro.
Quando mi venne data la diagnosi avevo capito il perché ma mi mancava il COME.
Come funziona mio figlio che ancora non parla e non può dire cosa prova?
Come posso comportarmi per farlo stare meglio e sentire più compreso?
Come posso ridurre i suoi pianti?
Come posso “educarlo”, nel rispetto della sua neuro-diversità ad avere comportamenti più adeguati al mondo in cui viviamo?
Mi resi conto subito che quello che ci spettava dal servizio sanitario nazionale non era abbastanza. Avevamo diritto a due sedute di logopedia e due sedute di psicomotricità alla settimana. Ma cosa sono 180 minuti di terapie nella vita di un bambino piccolo che ogni giorno cresce in un mondo a cui fatica ad adattarsi?
Non è una critica al sistema sanitario nazionale che ahimè fa come può. È solo una presa di coscienza. Il servizio pubblico non può prendere in carico completamente mio figlio, perché mio figlio necessita di più terapie, più cure, più ore, più assistenza.
La terapia ABA comportamentale: perchè l’ho scelta
Nel mio lungo “cercare”, la terapia ABA fin da subito è stata LA scelta.
Dico la scelta, perché quando mio figlio aveva 18 mesi, nessun medico all’inizio mi ha mai specificatamente suggerito un percorso intensivo ABA. Fin da subito sono stata io a proporlo, trovando – devo dire – il parere positivo dei medici.
È così che ho trovato la Cooperativa sociale ABAcadabra di Genova, che mi ha fin da subito colpito per l’utilizzo del baby signs per comunicare. Mio figlio non parlava e non comunicava in alcun modo se non attraverso il pianto.
Era esattamente quello che andavo cercando, un modo per comunicare con mio figlio, che fortunatamente è sempre stato relazionale e con un buon aggancio visivo.
Della cooperativa ABAcadabra mi era piaciuta fin da subito, la possibilità di fare terapie in sede, anche insieme ad altri bimbi. Non volevo assolutamente fare terapie domiciliari. Non mi piace l’idea che un bambino che ha difficoltà comunicative e relazionali venga seguito all’interno delle mura domestiche. Volevo l’apertura, volevo che vedesse altri bambini, se pur in terapia, volevo che fosse capace di relazionarsi con più terapiste e che sapesse gestirsi in spazi “diversi” da quello di casa. E avevo ragione, perchè oggi adora stare alle feste, gli piace stare in mezzo ai bambini. L’ho abituato così fin da piccolo.
I primi giorni di terapia sono stati abbastanza complicati. Il bambino si opponeva alle richieste, tentava la fuga ogni volta che poteva finchè, un giorno, ha iniziato a sorridere ogni volta che salivamo la scala per entrare e a mandare bacini alle terapiste. Era cambiato tutto.
E soprattutto, dopo un mese ha iniziato a comunicare con il baby signs. Mi chiedeva “ancora”, utilizzando il segno, ancora pappa, ancora gioco, ancora solletico…. È stato uno dei momenti più meravigliosi della mia vita.
I progressi attraverso la terapia comportamentale
In questi due anni ha fatto tantissimi progressi, gioca in modo funzionale anche insieme agli altri, conosce tanti segni, fa richieste continue, non vuole stare solo, pronuncia le vocali e spesso utilizza la voce e qualche parolina – anche se non parla ancora – per accompagnare una richiesta. Sul piano cognitivo ha fatto tanti passi in avanti, ma soprattutto i progressi li ha fatti anche la mia famiglia.
Abbiamo iniziato a capire come funziona il nostro piccolo grande amore. Grazie alle terapiste della cooperativa ABAcadabra abbiamo “imparato” a educarlo senza snaturarlo. Ho capito che devo essere solo una mamma e non una terapista e che il mio modo di essere una “mamma ABA” lo sta aiutando più di qualunque altra cosa a crescere al meglio.
I pregiudizi sull’ABA
All’inizio, quando raccontavo che mio figlio faceva ABA mi sono sentita dire cose come: ma sei sicura? Guarda che è una terapia durissima! Ma sei matta? L’ABA è un’addestramento per cani!
Non so da dove arrivino questi pregiudizi, ma posso dire che nella mia esperienza sono assurdi e infondati. Non abbiamo MAI usato un rinforzo edibile, tanto per fare un esempio. E non è un metodo duro, come molti dicono, altrimenti non si spiegherebbero i sorrisoni di mio figlio alle terapiste e le corse per bussare alla porta dell’ingresso. Senza contare che fin dall’inizio ho partecipato ad alcune terapie se fosse davvero stato un “metodo duro” come dicono, non avrei di certo continuato.
Al contrario, all’interno della Cooperativa ABAcadabra abbiamo trovato non solo una eccezionale competenza da parte di tutto lo staff, ma anche la guida che ci serviva per affrontare le piccole difficoltà della vita quotidiana, che una volta gestite nel modo giusto, cambiano davvero la qualità delle nostre giornate!
Non so quale sarà il nostro futuro, non voglio saperlo, non mi interessano le sentenze dei medici o i pronostici.
Voglio solo voltarmi un domani e non avere rimpianti, sapendo di aver fatto tutto ciò che andava fatto, al meglio delle mie possibilità. E so che questo “meglio” per noi include l’ABA. In terapia, a casa e a scuola.